Il Tribunale di Firenze ‘grazia’ la citazione di sentenze inventate da Chatgpt

L’utilizzo dell’intelligenza artificiale ogni giorno ed in modo esponenziale sta sempre più prendendo piede negli studi professionali, perché apparentemente permette di risparmiare tempo e si rivela un importante assistente nella elaborazione di testi, redazione di atti, procedure di calcolo e tanto altro.

In occasione di una recente decisione del Tribunale di Firenze, sezione imprese RG 11053/2024, sul tema dell’utilizzo non autorizzato di un marchio, parte convenuta aveva rilevato l’errore di verifica della veridicità delle ricerche effettuate e, sottolineando l’abusivo utilizzo dello strumento processuale, ha chiesto la condanna di controparte ex art. 96 c.p.c. per aver in questo modo influenzato la decisione del collegio. 

Parte attrice aveva riconosciuto l’errore, che aveva attribuito all’utilizzo di intelligenza artificiale (IA). Nel caso specifico, nel testo elaborato da chatgpt, venivano citate sentenze non solo sbagliate ma inventate.

I Giudici hanno dato la colpa all’intelligenza artificiale; “graziato” l’attore per l’errore e rigettato la richiesta di condanna ex. art. 96 cpc.

Nuova in giurisprudenza è la definizione delle cosiddette “allucinazioni di intelligenza artificiale” “che si verifica allorché l’IA inventi risultati inesistenti ma che, anche a seguito di una seconda interrogazione, vengono confermati come veritieri.”

Per la novità e l’interessante sentenza di seguito se ne riporta integralmente il paragrafo.

 

“3. La domanda di condanna di ex art. 96 c.p.c. 

Si ritiene infine che debba essere rigettata la richiesta di condanna di ex art. 96 c.p.c. avanzata da a seguito dell’indicazione, in sede di comparsa di costituzione, di sentenze inesistenti, ovvero il cui contenuto reale non corrisponde a quello riportato. 

A seguito delle note all’uopo autorizzate (occorre peraltro specificare come non possano essere considerate le parti inerenti al merito della vertenza inserite nella nota di replica depositata dal reclamante, essendo le note state espressamente autorizzate “sulla sola questione inerente i precedenti giurisprudenziali oggi contestati”, altrimenti ledendo il principio del contraddittorio), il difensore della società costituita ha dichiarato che i riferimenti giurisprudenziali citati nell’atto sono stati il frutto della ricerca effettuata da una collaboratrice di studio mediante lo strumento dell’intelligenza artificiale “ChatGPT”, del cui utilizzo il patrocinatore in mandato non era a conoscenza. L’IA avrebbe dunque generato risultati errati che possono essere qualificati con il fenomeno delle cc.dd. allucinazioni di intelligenza artificiale, che si verifica allorché l’IA inventi risultati inesistenti ma che, anche a seguito di una seconda interrogazione, vengono confermati come veritieri. In questo caso, lo strumento di intelligenza artificiale avrebbe inventato dei numeri asseritamente riferibili a sentenze della Corte di Cassazione inerenti all’aspetto soggettivo dell’acquisto di merce contraffatta il cui contenuto, invece, non ha nulla a che vedere con tale argomento. La reclamata, pur riconoscendo l’omesso controllo sui dati così ottenuti, ha chiesto lo stralcio di tali riferimenti, ritenendo già sufficientemente fondata la propria linea difensiva. 

Sul punto, il reclamante ha rilevato l’errore di verifica della veridicità delle ricerche effettuate e, sottolineando l’abusivo utilizzo dello strumento processuale, ha chiesto la condanna di controparte ex art. 96 c.p.c. per aver in questo modo influenzato la decisione del collegio. 

Occorre rilevare come l’indicazione di tali riferimenti giurisprudenziali sia stata posta a fondamento della tesi ab origine sostenuta dalla , proposta quindi a supporto di una struttura difensiva rimasta immutata sin dal primo grado del giudizio ed oggettivamente non finalizzata ad influenzare il collegio, appuntandosi piuttosto su quanto già indicato, in senso analogo, anche nelle decisioni di prime cure, in ordine all’assenza dell’elemento soggettivo della malafede dei dettaglianti, elemento sulla base del quale non sono state a loro estese le misure cautelari. 

In particolare, quanto all’applicazione del comma 1 del cit. art. 96 c.p.c., in linea generale si ritiene che abbia natura extracontrattuale, poiché “richiede pur sempre la prova, incombente sulla parte istante, sia dell’an e sia del quantum debeatur, o comunque postula che, pur essendo la liquidazione effettuabile di ufficio, tali elementi siano in concreto desumibili dagli atti di causa” (cfr. Cass., sez. L, sentenza n. 9080 del 15 aprile 2013) e, “pur recando in sé una necessaria indeterminatezza quanto agli effetti lesivi immediatamente discendenti dall’improvvida iniziativa giudiziale, impone, comunque, una, sia pur generica, allegazione della direzione dei supposti danni” (cfr. Cass., sez. II, sentenza n. 7620 del 26 marzo 2013). 

In applicazione di tali principi nel caso di specie, la domanda non può essere accolta, in quanto il reclamante non ha spiegato alcuna allegazione, neppur generica, dei danni subìti a causa dell’attività difensiva espletata della controparte. 

Questo tribunale ritiene del pari non applicabile il comma 3 dell’art. 96 c.p.c., la cui ratio deve individuarsi nel disincentivare l’abuso del processo o comportamenti strumentali alla funzionalità del servizio giustizia ed in genere al rispetto della legalità sostanziale; tale fattispecie deve inoltre intendersi come species dei primi due commi, per cui non si può prescindere dalla condotta posta in essere con mala fede o colpa grave né dall’abusività della condotta processuale. 

Ora, fermo restando il disvalore relativo all’omessa verifica dell’effettiva esistenza delle sentenze risultanti dall’interrogazione dell’IA, sin dal primo grado ha fondato la sua propria strategia difensiva sull’assenza di malafede nell’aver commercializzato le magliette raffigurante le vignette di elemento che poi si era già trovato nel decreto emesso inaudita altera parte e che ha trovato riscontro anche nella successiva ordinanza cautelare. L’indicazione di estremi di legittimità nel giudizio di reclamo ad ulteriore conferma della linea difensiva già esposta dalla si può quindi considerare diretta a rafforzare un apparato difensivo già noto e non invece finalizzata a resistere in giudizio in malafede, conseguendone la non applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 96 c.p.c..”

 

Si può concludere che l’intelligenza artificiale, come ogni strumento, deve essere utilizzato con il dovuto scetticismo ed essere consapevoli che i risultati ottenuti non sono scientifici. 

Il professionista che lo utilizza non deve mai e poi mai abdicare al proprio ruolo e alla propria competenza, affidando la propria autorevolezza, l’esperienza ed il necessario rigore nella ricerca e nell’esposizione dei fatti e della propria argomentazione ad una macchina, che rischia di fargli compiere errori. 

E’ sempre indispensabile la verifica ed il controllo da parte del professionista, con rigore, metodo e assunzione della responsabilità per quanto redatto.